LIBRI & POESIA: EMOZIONI SENZA TEMPO

Enzo Campi: Dei malnati fiori

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    Enzo Campi è nato a Caserta nel 1961. Vive e lavora a Reggio Emilia dal 1990. Autore e regista teatrale, con le compagnie Myosotis e Metateatro, dal 1982 al 1990. Videomaker: ha realizzato numerosi cortometraggi e il lungometraggio Un Amleto in più. Critico, poeta, scrittore. È presente in alcune antologie poetiche e collabora con alcune riviste letterarie on line. È autore del saggio filosofico Chaos : Pesare-Pensare scaricabile sul sito della compagnia teatrale Lenz Rifrazioni di Parma. Ha pubblicato per i tipi di Liberodiscrivere edizioni (Genova) il saggio filosofico-sociale Donne - (don)o e (ne)mesi nel 2007 e il saggio di critica letteraria Gesti d’aria e incombenze di luce nel 2008. Nel 2009 ha pubblicato per BCE-Samiszdat (Parma) il volume di poesie L’inestinguibile lucore dell’ombra. Sempre per lo stesso editore ha curato una postfazione in Collezione di piccoli rancori di Lara Arvasi.
    È rintracciabile, in rete, su
    Poetarum Silva
    Sguardi d'Autore
    Rebstein




    Prefazione

    Alterità e nascondimento
    (la condanna metafisica dell’Io)

    La testualità, intensa e magmatica, che appartiene ad Enzo Campi, si arricchisce di una nuova interessante proposta, dal titolo Dei malnati fiori.
    L’opera è accompagnata da una dedica illuminante: “A me stesso, al verbo / e a chi ha voluto che io fossi qui”. È quasi una dichiarazione programmatica che rassicura sull’apporto del poeta, demiurgo che si colloca in disparte e però lascia, come segni infiniti, le parole a denotare il suo intervento mai casuale, piuttosto affrontato con una ‘regia’ non invasiva.
    L’autore, per sua scelta un po’ ‘absconditus’, intende aprire un ciclo, con questo suo contributo, che già si avvale, come prologo, della splendida Ipotesi corpo. In un suo recente intervento difatti precisa: “Quel chi che «detiene la parola» non è portavoce del proprio ego […] Rubo una frase da uno dei prossimi libri del ciclo: «ego ex machina / appare solo dileguandosi»”.
    Vorrei fare un passo indietro e ricollegarmi a quella esperienza, introdotta magistralmente da Natalia Castaldi, della quale ricordiamo la seguente riflessione: “[…] esiste la possibilità che tutta questa apologia dica l’esatto e perfetto contrario di ciò che manifesta: non il dolore e la disperazione quindi, ma la consapevolezza che il piacere e l’appagamento viaggino, a braccetto e di comune accordo, con l’idea che il rendersi prossimo all’altro (sia l’altro-da-sé che propriamente l’altro sesso) rappresenti l’unica possibilità di prosecuzione. Ancora un ri-posizionamento quindi. Il corpo-uno, nel tentare di instaurare un regime di prossimità col corpo-altro, per usare una terminologia cara all’autore, si deloca o si rialloca costruendo una sorta di protesi del suo stesso spazio vitale (dalla Prefazione a Ipotesi corpo).”
    Il senso di un’alterità – guadagnata attraverso il cammino, vagabondo e ipotetico, della parola, complice e testimone empaticamente viva della distanza fra ‘io’ e ‘altro’ – ha un valore specifico nella poesia di Campi, specialmente nel progetto del suo ciclo poetico.
    L’entusiasmo dell’apologeta poi è fra le righe della testualità appartenente al Nostro, ne sono una prova le frequenti domande metafisiche, i passi citati da Ermini, Bigongiari, Travi e Derrida che introducono le quattro sezioni principali in cui è diviso il libro, ai quali si associano, sul piano delle idee, alcune stimolanti ‘narratio’ dell’autore, prosimetricamente unite al resto del percorso poetico.
    Il piacere del dialogo assoluto, del confronto fra titani della parola-essenza e l’ardita concrezione semantica intrapresa dall’autore, trovano posto anche nel giudizio espresso da Loredana Magazzeni, incentrato sull’idea di “apologia della dispersione”, ampiamente condivisa inoltre dall’autore stesso. Una prospettiva, quest’ultima, che apre a ventaglio, sparge le omeomerie del linguaggio, dei segni, complessamente legati al problematico reale, nel suo inesausto vagare, un iter splendido che si riflette sul rapporto fra parole (in crescendo) e cose.
    La studiosa dice testualmente: “[…] Campi insegue una sua “sorgività”, decantata in un dettato pensato soprattutto per la performatività e che “così inscritta / e vociata / in claudicanti dettati” guarda “con occhio cieco” alla potenza della voce vocata, invocando a sua volta una “apologia della dispersione”.
    Campi stesso potrebbe certamente aderire alla dichiarazione resa da Rimbaud nella lettera a P. Demeny nella quale si diceva proprio: “Io è un altro”.
    La complessità del rapporto fra il soggettivo e il mondo correlato è dunque pienamente riconosciuta dal poeta. Essa si traduce nelle premesse necessarie a sostenere, valorizzare, quella ‘dispersione’ che è potere del segno, ricchezza e splendida ambivalenza espressiva perché dopo tutto, per usare le parole dell’autore: “da che mondo è mondo / l’inessenza / è il male da abiurare”.
    Nel tentativo di guidare il lettore conviene tuttavia proporre una possibile interpretazione del titolo e dell’opera: Dei malnati fiori. L’aggettivo malnati cattura e risveglia l’interesse perché vi scopriamo subito due aspetti che occorre sottolineare. Il primo di essi allude allo statuto esistenziale del soggetto, l’Io, quindi del suo mondo, entrambi affetti da precarietà e perciò, in un certo senso, ‘nati male’. La seconda caratteristica chiama in causa il significato emotivo della parola, carica di ostilità, ‘malnato’ è chi viene fatto oggetto di un’invettiva: “Del malnato fiore / ch’a me s’affaccia / con lo sguardo indegno / di chi fomenta lo scontro / voglio amar lo sdegno / che vibra come incontro / nel loco ameno / del disconoscimento”.
    L’associazione, tra i fiori e i due originali significati, è frutto di una riflessione sul fondamento dell’essere e di uno sdegno anche per la frattura cosmica che si pone come sfondo alla discrepanza tra parole e cose.
    Riecheggiano allora le riflessioni profonde di Flavio Ermini, citate – idealmente – in un dialogo perfetto con la viva testualità campiana, in quanto: “Torna a farsi chiara la coscienza della frattura che divide le parole dalle cose. […] Consente l’annunciarsi del non-detto con l’inaugurazione di quella silenziosa voce che precede ogni dialogo tra gli uomini e ogni nominazione”.
    Si direbbe allora che per l’autore talvolta “nomina – non – sunt consequentia rerum!”
    Ma a questo punto è giusto cedere la parola ai versi, trattando di quell’Io così singolare nel suo inquieto nascondimento: “nell’affollato deserto / un solo spazio/ liberato dalla tirannia del tempo / si flette ad arco scoccando il dardo / che trapassa e rinsalda”.
    La voce del singolo è defilata, ma evoca possibili scenari di compensazione: si dilegua e appare invece il tutto. È il senso di un trapasso, una migrazione dell’essere, eppure di una finitudine dolorosa. La soggettività si lascia appena svelare in un atto, “erratico” e dialettico ad un tempo, che allude proprio al trapassare e, in antitesi, al rafforzamento (rinsalda).
    Una conferma della radicalità inerente alle tematiche succitate è nei successivi sviluppi poetici, in special modo quando il testo recita: “Malnato Io / ignudo e rovesciato / espulso / in rotti singulti / dall’amnio brodo / dell’umida caverna / chi mai sarai / mi chiedo / e ancora dico innato / al malvagio io che sei / e mi sono // Malnato addIo / igneo e floreo / innestato / nel buco nero / che conduce al limbo / perché mai ritorni / mi dico / e ancora chiedo al dIo / l’addivenire ignavo / al randagio Io che sono / e mi sei”.
    Se la condanna metafisica dell’Io è chiara, tuttavia il poeta aggiunge una spigolatura con quel “mi”, nel senso di “a me stesso” che chiude la circolarità della drammatizzata vicenda del soggetto, rifiutato eppure ammesso, nella reciprocità inevitabile delle relazioni. La parola “addio” si presta qui a riflettere, sia in merito alla peritura esistenza degli enti abbandonati alla morte, che al ruolo della divinità, camuffata nella suggestiva distorsione “dIo”. Non c’è una visione necessariamente teologica emergente tra queste righe, perché quel “dIo” porta i segni della sorte avventurosa del soggetto, la condivide, Dio potrebbe, dal canto suo, non essere, vivere negli intermundia, oppure Altrove. L’autore intende comunicare soprattutto l’oscuro dinamismo della nascita, percorso tuttavia nei due sensi, fuoriuscita e ritorno all’indeterminato. Si avvale, per questo scopo, del ribaltamento tra la prima e la seconda strofa, la dialettica scaturisce anche dal contesto del rapporto fra “Io che sei Tu” (malvagio) e “Me” (randagio), a conferma della proposta di un’altra figura dell’erranza, colta nel suo proprio iter.
    La discussione sulla poetica di Enzo Campi non può prescindere dalla sua visione della parola e della poesia. Gli esiti non si fanno attendere, ma sembrano seguire con infinita energia le stimolanti proposte estetiche relative alle “intenzioni di Anterem”. C’è da chiedersi come nel vario panorama odierno sia possibile trovare una convergenza ideale di propositi e spunti con la visione teorica di una rivista. La risposta non può risiedere se non nella testualità, quella del critico testimone e quella dell’autore. Ermini nelle succitate “Intenzioni” ad esempio dice: “…la via alla parola non conduce semplicemente da un luogo a un altro, da un senso all’altro, ma ci porta ad appartenerle”. E Campi in un suo recente intervento sembra aggiungere come una postilla: “L’erranza non può ridursi a mettere un piede avanti all’altro, l’erranza è anche la sosta presso tutte le soglie che compongono il percorso. L’erranza è dunque anche attesa, attesa della venuta in presenza del verbo e della venuta a sé”. Si tratta di una posizione importante che coinvolge l’energia propulsiva di questa creatività originale e sottesa ad un contesto teorico di livello. Un altro esempio è rappresentato dalla domanda posta da Ermini: “Ma com’è pensabile l’armonia dei differenti? e, insieme, il doppio sguardo che implica il loro confinare? Oggi la poesia è assenso all’essere attraversato dal silenzio. E proprio di quel silenzio – in cammino verso il senso – costituisce una rivelazione.” Cui Campi idealmente risponde, nel corpo del suo testo: “nell’assordante silenzio il fragore del nulla / lavora lento ad inguainare la soglia”, e ancora “ è questo il senso in cui ci si manca”.
    Affasciati dalla ‘voce’ di questo silenzio potremmo trascurare di riconoscere la natura dei fiori, protagonisti dell’opera. Non c’è un rapporto obbligato con “I Fiori del male” di Baudelaire. La sensibilità del decadentismo sarebbe fuori posto in quest’opera che si pone in ascolto dell’essere: cos’è il dasein? – chiede Campi – in uno scenario fantastico da ‘Saga della Primavera’. Neppure troviamo pedissequamente ‘The sick rose’ o altre rose invece di stile paradisiaco. I fiori sono spesso metafore sessuate, ma nel nostro caso c’è un superamento del duale, il poeta infatti, sebbene riconosca incessantemente la cifra della dualità, anche in senso fisico e corporeo in particolare, procedendo per opposti e provocazioni, si studia di trascenderla, immergendosi in tali antinomie mirabili, lasciandosi coinvolgere e lacerare come in un pasto di felini si consuma la preda. Ecco allora che se, da un lato, apprendiamo l’esserci della “dissomiglianza tra rosa e rosa” tuttavia è giocoforza ammettere che “lo stelo rinnega lo stame / e il bocciolo si libera del pistillo // si confondono i sessi / i simulacri brindano a festa / e il coro rinnova il rito / frantumando di testa il macigno”.
    Più avanti il poeta traccia una rappresentazione che ci fa comprendere come la rosa sia la custode dell’erranza, testimone empaticamente unita all’uomo, delle vicissitudini dell’essere, infatti così recitano questi versi: “e sarò qui tumulato / col dito ancora levato / innervato verso l’odiata soglia / spalancata sulla perfida madre / che consente il transito / solo sul sentiero / che elude le rose / e conduce all’abisso”; e proseguendo la lettura ci si riferisce poi “a qualsiasi mimesi che non sia simulata / e silenziata nel gesto atavico che tutto / racchiude e amplifica perché il verbo / è distanza infinita e riproposta / di rose senza stelo e cose senza amore”. D’altronde: “Il libro della vita / è logoro e consunto / sopravvive al disastro / nutrendosi di polvere ”; ed è quest’ultima una constatazione inevitabile alla quale non sfugge nemmeno la fantasia più esuberante che si trova a osservare e valutare le criticità esistenziali per scegliere la strategia giusta, nei suoi vagabondaggi sublimi. Per tale motivo “le parole rinunciano al messaggio / e si fanno sensibili”: è il riconoscimento della vulnerabilità umana non rimosso, essere infatti precari al mondo vuol dire fraternizzare con ogni respiro, con qualsiasi delicata, o forte, esperienza, accettandola in un’ottica di rara dignità e bellezza. L’abbandono alla condizione “malnata” non è senza appello, resta la capacità di sostenere il proprio destino ‘errabondo’ avvalendosi anche della potenza della parola, farmaco (Derrida) non da sottovalutare. È il senso elevato del “ludere”, suffisso dei termini chiave, posti all’inizio di alcune sezioni dell’opera campiana (pre-ludi; inter-ludi; epi-ludi): i significati non sono mai quelli che sembrano a prima vista, parrebbe dire il poeta che tra rime pregevoli e consonanze accentate, filastrocche dotte e più livelli di significato, accompagna il suo lettore in un’avventura testuale senza precedenti.
    Marzia Alunni

    Note
    Le citazioni di Flavio Ermini sono tratte da L’esperienza originaria del dire, quelle di Loredana Magazzeni dalla Rivista Le Voci della Luna, N°48, Speciale Premio Giorgi.





    Se questo libro vi interessa, vi consiglio di consultare la scheda sul sito delle Edizioni Smasher (link).
     
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