LIBRI & POESIA: EMOZIONI SENZA TEMPO

Giovanni Abbate: Vocianti

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  1. Edizioni Smasher_PR
     
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    Finché non sapremo chi siamo di Giulia Carmen Fasolo

    Scrivere una nota di commento risulta forse vacuo, vista la bravura del redattore della prefazione, Paolo Paoloni, nel presentarvi “Vocianti”. Ma ugualmente desidero parlarvi di ciò che ho sentito, senza voler necessariamente effettuare una logoscopia o una parafrasi della poetica di Giovanni Abbate.
    Ho riletto più volte i versi di quest’Opera, anche perché sono rimasta incuriosita dai titoli in rumeno, incisi nella prima parte della Silloge. Non ho resistito ed ho peccato di fame letteraria: ho chiesto al mio amico Ovidiu di farmi una loro traduzione. Non ve li svelo, ma invito voi a peccare in egual modo, se avete un amico o un conoscente rumeno.
    Ritengo che vi sia un incontro, piacevole ma allo stesso tempo disincantato, tra la prima parte di questa Silloge (La ragazza di Bra?ov) e la seconda (Vocianti) che poi dà il nome all’intera raccolta.
    Non è solo l’uso della lingua rumena che mi ha colpito tra le due prossemiche poetiche. È come se Abbate nella prima mantenesse un raccordo anulare di tenerezza, rispetto, passione, amore, ascolto, ricerca. Voglia di condivisione, in un’unica finale espressione. Nella seconda parte, invece, la disillusione per un mondo che di incantato non ha proprio nulla arriva di colpo, chiara, inequivocabile, forte e schiaffeggiante.
    Il poeta si pone dei perché esistenziali, ma mai scontati e qualunquisti. Tenta di conoscere il mondo, e lo fa attraverso le numerose domande su questa strana e – per certi aspetti – allucinata esistenza. Resta di sottofondo la filigrana precisa: noi non lo sappiamo chi siamo, neppure dopo mille domande e neppure nel riverbero di (in)certezze inespugnabili, imbevute di idiosincrasia umana e divina. È vana la corsa delle parole e dei significati, perché sono un divenire di ossimoro sulla bocca. Ci riempiamo ogni giorno di concetti che non sono mai verità, se non visioni relative di un mondo altrettanto relativo, almeno nella prospettiva di oggi.
    Dicevo che nella prima parte della Silloge, il poeta è come se non avesse perso le speranze del tutto, come se insieme alla donna riuscisse in qualche modo a vedere, leggere, sentire e parlare oltre il già visto, letto e sentito. È un mondo che viene svelato a poco a poco, tra i due: nella fretta dell’incanto del momento e nella distanza spaziale che talvolta priva di contatto. È come se il poeta volesse mangiare a morsi il nome della donna, per sentirla ancora con sé, parte della propria “realtà respiratoria”, con un’introduzione attraverso la bocca dell’oggetto amato in chiave simbolicamente psicoanalitica. Ma le assenze giungono ad un certo punto e divengono contrasto, pure nell’aspetto di un rapporto che sembra non essere svanito nonostante tutto. Ma un rapporto, di qualsivoglia natura, non può vivere a lungo distante dai tentacoli del mondo.
    È bravo Giovanni Abbate, perché ci trasporta senza coazione dall’altra parte della Silloge. Ancora una volta, siamo di fronte ad una poesia – per quanto diversa dalla prima, quindi meno “incantata” se vogliamo – che non si chiude in sé, nel dolore esistenziale, pur essendo quest’ultimo vivo sulla carne. È una poesia che incontra l’altro, quello che non è mai conosciuto come “straniero cattivo”, se non altro perché chi non intende appartenere all’inutilità di questo mondo, da qualsiasi parte provenga, è uno straniero nella propria terra. È poeta e uomo, allo stesso tempo, Abbate. Si sente forte la voglia di vedersi con gli occhi dell’altro, della donna così vicina a sé e alla propria vita. E chissà come sarebbe almeno il nostro mondo se riuscissimo a spostare qualche volta la prospettiva, lontana dalle nostre assunzioni quotidiane di verità assoluta e inutile.
    Giovanni Abbate ci parla tanto di Dio e della sua esistenza (sempre presunta e mai certa), soprattutto nell’ultima parte dell’intera raccolta. A tutti è capitato di chiedersi: “Ma se c’è, dov’è finito? Cosa starà mai facendo di tanto importante da non rendersi conto?”. Eppure il mondo procede ugualmente, indossando ogni giorno vestiti larghi e vestiti stretti. Ci insabbia di vita e di morte, come nulla fosse. E se giocassimo anche noi a questo macabro gioco del nascondino?
    Sono il curatore editoriale di questa Silloge, parlarne bene apparentemente sembra quasi un dovere. Ma mi chiedo, anzi vi chiedo: sarebbe mai possibile scrivere così bene, fluire così i versi, se non si possedesse quella profondità di visione che permette di non restare incespicati al primo passo? Io direi di no. Giovanni Abbate possiede, forse per età o forse per maturità stilistica, quella stesura della vita in versi che in tanti rincorrono inutilmente.
    Non siamo di fronte a sensi ermetici, enucleati per sé soltanto, ma abbiamo rispecchi saturi di scampoli di vita di ciascuno di noi.
    E neppure noi, come il poeta Abbate, dovremmo fermarci nella ricerca di noi e dell’altro. Perlomeno finché non sapremo almeno un po’ chi siamo.

    Se siete interessati a questo libro, vi consiglio di consultare la scheda sul sito delle Edizioni Smasher (link).
     
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0 replies since 1/6/2012, 20:33   31 views
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